Terrorisme

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Intervista ad Anna Bull

Anna Cento Bull è professore ordinario di storia dell’Italia contemporanea (Italian history and Politics) all’Università di Bath in Gran Bretagna. Si è occupata a più riprese d’identità collettive e culture politiche in Italia, di regionalismo e federalismo e ha scritto importanti articoli sulla Lega Nord.  Una parte rilevante della sua ricerca è dedicata alla violenza politica in Italia negli anni Settanta, con particolare attenzione a quella di matrice neofascista su cui ha scritto un libro fondamentale uscito nel 2007 (Italian Neofascism. The strategy of Tension and the politics of Non reconciliation, Oxford and New York, Berghahn Books). Attualmente sta lavorando ad un libro intitolato The end of terrorism and its legacy in Italy che uscirà per Rutledge nel 2013. Un retaggio da considerare ancora problematico per il nostro paese: il 7 maggio di quest’anno un dirigente della divisione nucleare dell’Ansaldo è stato ferito  a una gamba con modalità che ricordano le “gambizzazioni” di dirigenti aziendali e giornalisti durante gli anni di piombo.

Ho potuto intervistare Anna Bull a maggio durante la sua partecipazione alla conferenza internazionale Conflict in Memory: Interpersonal and Intergenerational Remembering of War, Conflict and Transition, organizzata dall’Università di Aarhus nell’ambito degli annuali seminari MatchPoint (http://matchpoints.au.dk/) dove ha tenuto una relazione plenaria dal titolo Challenging Amnesia: Perpetrators' and Victims' Storytelling.

                                                                 Leonardo Cecchini

 

 

LC:

Il 15 aprile scorso dopo tre inchieste e undici sentenze sono stati assolti in appello i quattro imputati per la strage di Piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974). In quell’occasione i due pubblici ministeri hanno detto di sentirsi sereni perché hanno fatto il possibile per assicurare i colpevoli alla giustizia e che ora non resta che affidare il giudizio alla storia. Sandra Bonsanti invece sul blog di Giustizia e Libertà ha proposto di istituire un maxi processo contro lo stato deviato; se non è possibile condannare gli esecutori almeno si può provare a raggiungere una giustizia su coloro che hanno coperto le stragi. Tu che pensi. E’ ancora possibile continuare la strada giuridica (dopo trentotto anni) o non è ormai troppo tardi? Dobbiamo rassegnarci a lasciare il giudizio di quelle stragi al tribunale della storia?

AB:

Ritengo che la strada giuridica non sia più percorribile. Tuttavia anche quella storica presenta numerosi ostacoli dal momento che le fonti documentarie mancano o a tutt’oggi  sono ancora inaccessibili. Sorge il forte sospetto che, dopo avere sabotato i processi in passato, lo Stato cerchi adesso di rimandare il giudizio degli storici almeno di una generazione. Mi sembra quindi che affidarsi agli storici senza una continua mobilitazione della società civile e delle associazioni delle vittime non costituisca in ogni caso una strada percorribile. L’appello per l’apertura degli archivi di stato, sottoscritto da oltre 50.000 persone, costituisce un esempio di come la società civile possa e debba mobilitarsi non soltanto per la verità, ma anche per rendere possibile il lavoro degli storici.  Inoltre rimango convinta che oltre ad affidarsi al giudizio degli storici si debba continuare a fare pressione su esponenti delle istituzioni e dei partiti con diverse iniziative pubbliche, magari anche con il coinvolgimento di alcuni ex-terroristi, affinché dicano quello che sanno.

LC:

Più in generale, e questa è la seconda domanda, se proviamo a guardare in retrospettiva come è stato affrontato in Italia il problema del retaggio o memoria o legacy di quegli anni, dalla fine degli anni Ottanta fino ad oggi, cosa ti sembra di questo, chiamiamolo così, processo di rielaborazione.  Quali sono stati i suoi successi e i suoi fallimenti? Siamo riusciti a creare una memoria largamente condivisa del periodo?

AB:

Temo che i fallimenti superino di gran lunga i successi. Questi ultimi si possono riassumere in un processo giudiziario che bene o male è andato avanti in tutti questi anni e che ha fatto emergere un quadro circostanziale abbastanza ben definito, anche se nel caso delle stragi non si è riusciti ad individuare i singoli colpevoli né tantomeno i mandanti e anche se, nel caso di Moro, persistano tuttora numerosi inquietanti interrogativi. Tuttavia i processi non hanno innestato un processo collettivo di rielaborazione e soprattutto non hanno fatto breccia nelle ‘contro-memorie’ politiche di quegli anni che persistono sia a destra che a sinistra. Lo stato ne è emerso con la reputazione ammaccata ma ha potuto continuare a sostenere ufficialmente la propria sostanziale estraneità ai fatti di strage. I partiti politici durante la Seconda Repubblica hanno approfittato della mancanza di verità e di chiarezza su quegli anni per de-legittimarsi e accusarsi reciprocamente.

Vorrei però chiarire che sono d’accordo con quanti sostengono che non sia possibile né auspicabile arrivare a una memoria condivisa in una democrazia pluralista. Il vero problema è che oggi le tante contro-memorie politiche traggono alimento da continue teorie cospirative in un contesto di opacità per cui non possono essere smentite o convalidate. Soltanto se emerge la verità sugli eventi del passato e viene chiarito il ruolo dello Stato e degli eventuali mandanti nel terrorismo e nelle stragi sarà possibile circoscrivere la portata di queste contro-memorie politiche e cominciare un processo di ripensamento di quegli anni che, pur senza creare necessariamente una memoria condivisa, riesca a partire da premesse largamente accettate e riconosciute e sappia tener conto delle ragioni degli altri.     

LC:

Sempre in occasione della sentenza di assoluzione per gli imputati della strage di Brescia, il presidente dell’Associazione dei famigliari delle vittime, Manlio Milani, ha rilasciato alcune considerazioni al Corriere della Sera, affermando che c’è una catena di ricatti che lega gli uni agli altri, dagli esecutori ai rappresentanti degli apparati, fino ai responsabili politici e aggiungendo anche che c’è stata ”una certa timidezza del Pci dell’epoca che non voleva rischiare di compromettere il rapporto con la DC. Ma fino a quando la ragion di Stato avrà il sopravvento sulla ricerca della verità?”. Il blog della sinistra radicale Insorgenze, riprendendo queste dichiarazioni, afferma che: “La verità sulle stragi fu sacrificata sull’altare del Compromesso Storico” e che “Il PCI concepiva il ricorso allo strumento giudiziario come una leva per facilitare i suoi scopi politici.” Pensi che ci sia della verità in queste affermazioni? Più in generale come giudichi le risposte del sistema politico allora e oggi alle domande di verità e giustizia da parte delle vittime delle stragi e dell’opinione pubblica.

AB:

Penso che ci sia del vero in queste affermazioni. Per quanto riguarda il primo punto, ancora recentemente, negli ultimi processi per la strage di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia, è risultato che diversi testimoni erano estremamente restii a parlare, in certi casi impauriti, sotto ricatto, anche minacciati. E’ chiaro che i depistaggi continuano ancora oggi e questo è un altro motivo per cui  la strada giuridica non è più percorribile, senza contare che molti testimoni sono scomparsi o non risultano più attendibili.

Per quanto riguarda il ruolo del PCI, ritengo che abbia ragione Milani quando sostiene non solo che la timidezza del PCI fosse dovuta al rapporto con la DC, ma anche al fatto che questo partito fosse timoroso che altre verità potessero emergere, ad esempio riguardo alle origini del terrorismo rosso e a eventuali complicità con lo stesso in alcune realtà locali. Del resto non penso assolutamente che le stragi fossero imputabili alla DC in quanto tale, ma semmai ad una parte di essa e mi sembra plausibile che Moro abbia deciso di neutralizzare questa parte, ma nello stesso tempo di nascondere il ruolo da essa sostenuto. Nel contesto della Guerra Fredda, le ragioni politiche e di partito sicuramente andavano anteposte al raggiungimento della verità, il che non vuol dire che tutti coloro che hanno depistato fossero tra i mandanti o i colpevoli.   

Ciò che risulta molto più difficile da accettare, a mio parere, è il comportamento dei partiti dopo la fine della Prima Repubblica, quando avevano la possibilità di venire incontro alle domande di verità e giustizia da parte delle vittime delle stragi e dell’opinione pubblica e nello stesso tempo di aprire una fase veramente nuova della politica italiana. In questo senso la Commissione Stragi è stata emblematica nel dimostrare la totale incapacità della classe politica di superare le divisioni e le fratture del passato. Il fenomeno del berlusconismo e il continuo ricorso di Berlusconi alla retorica dell’anticomunismo hanno semmai esacerbato quelle fratture. C’è da dire anche che Tangentopoli è stata interpretata dalla destra come un tentativo deliberato da parte del PCI di screditare una parte del sistema politico ed ergersi a unico partito virtuoso. Lo storico di destra Ilari ritiene che sia stato un ulteriore episodio nella perenne guerra civile che divide l’Italia in due campi.

LC:

Mi sembra che una delle conseguenze negative di questa mancata o parziale rielaborazione sia stata da una parte il proliferare di quello che normalmente si chiama dietrologia (narrazioni che hanno la forma delle teorie della cospirazione) – e che quindi si prestano molto all’uso politico del momento - oppure dall’altra a quello che Giuseppe De Luna (nel suo libro L’Italia del dolore 2011) ha chiamato “paradigma vittimario” (se devo scegliere tra i due, preferisco quest’ultimo).

Recentemente parallelamente all’uscita del film di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage (che non ho ancora visto) sul commissario Calabresi, l’anarchico Pinelli e sulla strage di Piazza Fontana che s’ispira (pur prendendone le distanze) a un libro di Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana (Ponte alle Grazie2009), in cui si propone la tesi della doppia bomba (anarchica e fascista, i doppi estremismi), Adriano Sofri ha messo in rete un suo saggio (43 anni: Piazza Fontana, un libro, un film) proprio per cercare di controbattere questa narrazione (a mio parere demenziale). Tuttavia la “teoria” di Cucchiarelli ha avuto un certo successo nell’opinione pubblica ed è stata ripresa anche nel romanzo, per altro interessante, di Alberto Garlini La legge dell’odio uscito quest’anno e che ricostruisce il mondo e la mentalità della destra estrema di quegli anni.  

Tu come giudichi questi tipi di narrazioni (che a me sembrano molto funzionali all’uso politico della storia e quindi in qualche modo prova che non abbiamo superato quel periodo)?

AB:

Mah, io vorrei fare una differenza tra uso politico della storia e scoop giornalistico-investigativo perché non sono la stessa cosa. Il libro di Cucchiarelli a mio parere fa parte di questo secondo filone, alimentato chiaramente sia dalla mancanza di verità sulle stragi sia dall’interesse del pubblico di arrivare a saperne di più sui cosiddetti ‘misteri d’Italia’. In generale, queste narrazioni sono incomplete, giornalistico-scandalistiche, e non aiutano a ricostruire il contesto storico e politico in cui sono maturate le stragi.

 Il punto è però che le rivelazioni giornalistiche fanno scattare reazioni fortemente politiche e ‘schierate’, per cui la tesi di Cucchiarelli non viene respinta (come fa Giannuli, il quale tuttavia afferma contemporaneamente che il libro contiene elementi utili ai fini delle indagini) sulla base di confutazioni razionali e logiche, ma sulla base di appartenenze politiche in quanto non può accettarsi che un anarchico come Valpreda possa essere stato coinvolto, sia pure perché caduto in una trappola e non coscientemente, nella strage di Piazza Fontana.  Immagino che una simile reazione scatterebbe se venisse sostenuto che Feltrinelli potrebbe in qualche modo essere stato implicato in giochi incrociati molto pericolosi. Confesso che io non ho reazioni preconcette di questo tipo; la strategia della tensione è stata talmente sporca che potrebbe avere coinvolto elementi di estrema sinistra o anarchici, tanto più se inconsapevolmente. Credo anche che questo possa applicarsi ad alcuni elementi di estrema destra, cioè non è detto che tutti sapessero a che gioco stessero giocando. Detto questo, le reazioni a queste pubblicazioni indicano chiaramente che non abbiamo ancora superato quel periodo, come tu giustamente sostieni.

LC:

Veniamo al paradigma vittimario.  Qui il pericolo secondo me è quello di un ecumenismo generale: ci sono state un sacco di vittime innocenti, onoriamo le vittime e dimentichiamoci i carnefici e le loro differenti motivazioni.  E` un tentativo da parte dello Stato di chiudere in qualche modo i conflitti del periodo in nome della sofferenza comune (e  naturalmente preferisco quest’atteggiamento a quello manipolatorio delle narrazioni dietrologiche), ma… Tu che ne pensi?

AB:

Per quanto riguarda il libro di De Luna, io capisco il punto di vista dell’autore e la sua preoccupazione che la ‘privatizzazione della memoria’ porti a rivendicazioni particolariste nelle quali si perde il senso della solidarietà nazionale. Tuttavia mi sembra che le sue critiche si applichino molto di più alla costruzione sociale d’identità collettive di appartenenza tramite una presunta condizione comune vittimaria, che non alle vittime del terrorismo. Queste ultime spesso privilegiano la propria identità di ‘cittadini’ a scapito di quella di ‘vittime’ e pongono le proprie rivendicazioni a nome e a beneficio di una comunità nazionale di appartenenza. Anche se la memoria e la condizione vittimaria sembrano accomunare gli uni e gli altri, si tratta in realtà di fenomeni che vanno tenuti ben distinti. 

Per quanto riguarda l’aspetto commemorativo, esiste certamente il forte rischio che le commemorazioni ufficiali rappresentino un tentativo di chiudere con il passato senza dover fare i conti con il forte deficit di verità e di giustizia. D’altra parte le vittime stesse hanno voluto la Giornata della Memoria e riconoscono al Presidente della Repubblica Napolitano la volontà di coniugare il ricordo delle vittime con il dovere di fare luce su questo periodo storico. Come ho detto nella mia relazione al convegno, gli esperti di processi di riconciliazione sono divisi sul ruolo delle vittime e delle loro testimonianze; molti ritengono che ai fini di una coesione nazionale sia necessario far risaltare la sofferenza comune, accomunando se possibile la sofferenza degli ex-carnefici a quella delle vittime. Io sostengo che questa sia una concezione riduttiva del processo di riconciliazione, una soluzione che può andar bene allo Stato e a quanti promuovono una sorta di ‘amnesia collettiva’ ma che spesso si rivela superficiale e di breve durata. Il rischio che gli odi continuino a covare sotto le ceneri di quello che tu chiami ecumenismo generale e che i conflitti si riaccendano è forte e reale.

LC:

Già a partire dagli anni Ottanta e poi in seguito a intermittenza erano affiorati accenni all’uso della tortura nell’interrogatorio di  militanti o simpatizzanti dei gruppi armati della sinistra. L’8 febbraio 2012 la trasmissione Chi l’ha visto ha dedicato una puntata a quest’argomento seguita da un reportage dell’Espresso il 6 aprile. L’ex dirigente della DIGOS Rino Genovese (già allora indagato) ha testimoniato di un ricorso non episodico e sancito almeno tacitamente dall’alto del water boarding e di altre pratiche di torture verso militanti della lotta armata di sinistra tra la fine degli anni Settanta e inizi anni Ottanta. Il blog di Insorgenze ha dedicato vari post a queste ammissioni, affermando, in polemica con giudici come Spataro (“l’Italia non ha conosciuto derive antidemocratiche nella lotta al terrorismo”), che lo Stato democratico ha utilizzato metodi “eccezionali” nella lotta al terrorismo (sulla stessa lunghezza d’onda anche Giorgio Agamben). Tu che ne pensi?

 

AB:

Ci sarebbero varie considerazioni da fare in proposito. La prima è che quasi tutti gli ex-terroristi che ho intervistato e quelli che hanno pubblicato le loro memorie sono stati concordi nel sostenere di aver subito violenze e maltrattamenti in carcere, compresa la tortura. Coloro che si sono dissociati dalla lotta armata tendono a riconoscere che violenze e maltrattamenti sono stati in parte una reazione delle guardie carcerarie ai loro atteggiamenti di dura chiusura e di opposizione frontale poiché le carceri erano viste come un altro fronte dove si combatteva contro il nemico. Si tende anche a riconoscere che in molti casi si è trattato di episodi di ritorsione in seguito a rivolte carcerarie o tentativi di fuga o atti provocatori da parte dei terroristi imprigionati. Coloro che continuano a sostenere la giustezza della lotta armata parlano invece di torture sistematiche da parte di uno Stato violento, brutale e fondamentalmente fascistoide. E’ evidente che le testimonianze degli ex-terroristi divergono a seconda di come si pongono rispetto alla loro storia passata e rispetto ai valori della democrazia. Lo Stato torturatore fa parte delle costruzioni vittimarie e delle contro-memorie di cui abbiamo parlato prima; Stato torturatore = stato fascista permette di giustificare ancora oggi la presa delle armi come l’unica possibile risposta in un contesto in cui la democrazia non era praticabile.

Detto questo, vi sono state anche delle torture sistematiche usate per spingere i terroristi a fare abiura e passare a più miti consigli. In molti casi comunque parliamo di torture nel senso di celle isolate e con la luce accesa 24 ore su 24, nessun contatto esterno, ecc., piuttosto che violenze dirette sulla persona. Poi ci sono state anche violenze dirette, senz’altro nel caso Dozier che è il caso specifico citato da molti. Anche Francesca Mambro, durante un’intervista concessami nel 2011, ha sostenuto che, per quanto le risultava, non vi erano state torture dei terroristi o terroriste in carcere, ma che nel caso Dozier invece erano state usate. All’epoca vi erano state anche delle denunce seguite da alcune (lievi) condanne, quindi i fatti erano già venuti alla luce.   

Mi sembra quindi che ci troviamo di fronte ad una situazione in cui i fatti accertati relativi a torture sistematiche e premeditate sono circoscritti anche se pur sempre gravi; i fatti relativi a percosse e maltrattamenti sono piuttosto diffusi ma non premeditati, come riconosciuto da molti ex-terroristi; le interpretazioni e ricostruzioni variano drasticamente perché qui torniamo all’uso politico della storia.

LC:

Dopo la caduta del sistema politico della Prima Repubblica con Mani Pulite ecc. si può veramente parlare di Seconda Repubblica? O il passaggio a questa non è ancora avvenuto completamente?  Qual è il tuo giudizio sulla situazione attuale dell’Italia e del suo sistema politico? E non ti sembra che molti degli scontri ideologici di allora (compreso il giudizio sulla violenza di destra e sinistra) siano ancora pericolosamente utilizzati del dibattito politico odierno?  

AB:

Come accennavo prima, non si può parlare di Seconda Repubblica proprio a causa di una persistente divisione ideologica per cui si demonizza l’avversario e lo si trasforma in ‘nemico’. Paradossalmente sembrerebbe che, non l’avvento, ma piuttosto la fine della cosiddetta Seconda Repubblica, sancita dalla caduta del governo Berlusconi e dalla sua sostituzione con un governo tecnocratico presieduto da Monti alla fine del 2011, possa essere un preludio ad un nuovo sistema politico. Lo scandalo per corruzione e la conseguente perdita di voti che hanno investito la Lega Nord sono un ulteriore segnale che uno dei maggiori protagonisti della Seconda Repubblica e uno degli attori che hanno investito in risorse identitarie di tipo ‘vittimario’ sta forse per essere fortemente ridimensionato. Tuttavia molto dipende dall’esito degli sforzi del governo Monti: se i sacrifici che esso richiede agli italiani dovessero essere considerati inutili o peggio ancora soltanto vessatori, senza portare a un miglioramento della situazione socio-economica, possiamo attenderci un inasprimento delle tensioni sociali e delle divisioni politico-ideologiche e l’affermarsi di nuovi partiti e/o gruppi estremisti. Potremmo anche assistere al ritorno della violenza politica e del terrorismo, a riprova che certe contro-memorie hanno continuato a essere trasmesse da una generazione all’altra e sono in grado a tradursi in azioni violente quando il contesto esterno si rivela ‘favorevole’. Il recente attentato di Genova, il ritrovamento di volantini con la stella a cinque punte nel milanese e le rivendicazioni delle Nuove Brigate Rosse al processo di Milano sono segnali molto preoccupanti che vanno in questa direzione.

LC:

Tu sei un’attenta osservatrice e studiosa dell’estrema destra in Europa e in Italia, come giudichi la situazione della destra neofascista italiana oggi di fronte a nuovi fenomeni come la globalizzazione, l’immigrazione e l’avvento di un populismo non fascista rappresentato per es. in Italia dalla Lega Nord?

AB:

Al momento la destra neofascista italiana è frammentata e appare incapace di imporsi come un movimento populista di tipo nuovo, come invece ha saputo fare la Lega Nord, che come tu dici non è riconducibile ad una matrice fascista o neofascista. Tuttavia un possibile peggioramento della situazione economica e sociale, unitamente ad un drastico ridimensionamento della Lega, potrebbero aprire uno spazio per il riaffermarsi di movimenti di tipo neofascista come è accaduto in Grecia. Le elezioni comunali del 2012 hanno visto solo un’affermazione molto modesta di Forza Nuova e altri partitini di estrema destra, ma questo non deve indurre a falsi ottimismi. Se la destra neofascista riesce a coniugare l’anti-globalizzazione e l’anti-immigrazione con una critica radicale della società capitalistica e a declinare questi temi in uno stile popolar-populista, potrebbe riuscire a far breccia nell’elettorato. Questo mi sembra poco probabile al momento perché non vedo possibili leader carismatici in quest’area politica. Non so invece se si possa immaginare un ritorno a metodi bombaroli e cospiratori. Penso che sia possibile come risposta e reazione all’avversario. Se quindi il ricorso alla violenza come ‘legittimo’ mezzo politico dovesse riemergere all’estrema sinistra, è possibile ipotizzare una speculare reazione violenta dall’altra parte.   

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